di Stefano Maria Bianchi – Quello che fa rabbia è che questa storia la conoscevo già, ma non sapevo come cambiare il finale. La storia di un paziente vittima di una sanità allo sbando, di medici impreparati, balbettanti, senza più amore per la professione. Quel paziente è mia madre.
La notte di sabato 30 settembre mamma ha una grave crisi respiratoria. Tamponiamo con l’ossigeno fino all’alba, poi disperato chiamo il 118. I soccorritori, tutti infermieri (non c’è un medico) sono premurosi, attenti, persino affettuosi. L’elettrocardiogramma, sovrapponibile ai precedenti, racconta di una cardiopatia cronica grave, ma apparentemente senza segni di scompenso, per diagnosticare quello servono altri esami. La saturazione però è bassa e quello che preoccupa l’infermiere più anziano è quel respirare a stantuffo con la pancia.
“Non mi piace” dice, “ricoveriamola”. “Soprattutto perché è cardiopatica e con l’insufficienza renale che ha, potrebbe essere un brutto segnale”. L’ambulanza sgomma sull’asfalto ed io corro a perfidiato al Santissima Annunziata che è vicino casa. I soccorritori non la mollano fino all’arrivo dei medici. Cerco di comunicare con loro, di fargli leggere le cartelle cliniche dei ricoveri precedenti, le analisi, i responsi degli specialisti. Non ci riesco e mi sbattono fuori, anche con un certo fastidio per le mie assurde pretese. Nel frattempo un uomo di mezza età, che attendeva il ricovero dalla notte, dà in escandescenza. Si scaglia contro l’infermiera del triage, dopo aver spaccato a pugni il pannello di protezione, rimasto lì dopo la crisi del Covid. Urla come un ossesso che vuole essere ricoverato. Gli dicono che prima di lui ci sono casi più gravi e che i medici sono pochi. Non gli basta, continua a sbraitare e a menare cazzotti violenti sul bancone. Sono tutti terrorizzati. Arriva la polizia, appena in tempo.
Passano due ore, quando mi chiamano al cellulare: “sua madre può uscire, tutto bene”. Sorpreso, chiamo il taxi e la porto a casa. Intanto leggo la cartella clinica: “Dolore toracico atipico in paziente con cardiopatia ischemica cronica. Non urgenze cardiologiche.” Atipico? Non urgenze? Mah. All’occhio mi salta il parere del radiologo: “esame eseguito in condizioni tecniche sfavorevoli”. Cioè? Non funzionava la Rx o cosa? Nel caso, perché non aspettare condizioni tecniche più favorevoli? La notte dopo le dimissioni è tragica, mia madre respira sempre peggio, soprattutto sdraiata. La cosa migliora, appena, se sta seduta. Le chiedo se l’hanno ascultata con il fonendoscopio: “no, niente”. Rileggo la cartella clinica, una, due, tre volte e, fidandomi del responso dei medici del pronto soccorso, azzardo che possano essere stati degli attacchi di panico. Chiamo il medico di base e lo prego di venire a casa. Arriva venerdì pomeriggio. Mia madre ha ancora visibili i sintomi che avevano preoccupato l‘infermiere. Gli faccio il resoconto dettagliato del ricovero. “Potrebbero essere attacchi di panico” dice non troppo convinto, “ma per la terapia vi serve un neurologo”. Le misura la pressione e, senza scrivere niente, va via. La situazione precipita, così sabato chiamiamo uno pneumologo amico di famiglia. “Ma quali attacchi di panico” dice, “con questi sintomi e quel quadro clinico è sicuro uno scompenso del sistema cuore reni, che ha provocato un versamento di liquidi nella pleura”. Dalla borsa prende un fonendoscopio e le asculta le spalle. Penso a quanto possa valere quello strumento di diagnosi così semplice, settanta, ottanta euro?
Scuote la testa e sentenzia: “è un versamento pleurico, si sente chiaramente”. Un successivo esame eco conferma la diagnosi. “Le vedi le macchie bianche? Ecco quelli sono i liquidi. Portatela subito in ospedale!” La barella, poi la sirena e la corsa a perdifiato in ospedale. Il pronto soccorso è un Vietnam in fiamme, con una folla di pazienti, più o meno gravi, che premono disperati per entrare nei reparti di cura. Conto due soli medici, che rimbalzano come palline da flipper. Una bambina con una crisi epilettica ed un uomo aggredito da un rivale in amore, con ripetuti colpi di cacciavite alla tempia, fanno impazzire il reparto. Mia madre viene inghiottita nel nulla. Arriva di nuovo la polizia, questa volta per indagare sull’uomo che ha preso a cacciavitate il rivale. A notte fonda il responso al telefono: versamento pleurico da scompenso, da trattare con una massiccia dose di diuretici. La mattina dopo mi precipito in ospedale per incontrare il primario di medicina interna, gli racconto tutto, per filo e per segno. Annuisce, con gli occhi bassi, senza proferire parola. Faccio a tempo a vederla per l’ultima volta, le dico di non mollare. Il finale che non ho potuto cambiare è questo: abbiamo perso una settimana di terapia e così il cuore e i reni di mia madre sono collassati.
Dopo un’altra notte di agonia è avvenuto il decesso. All’Ospedale Santissima Annunziata, a Taranto, in Italia.